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Dusk of the Ages dei Furor Gallico: la recensione

by InsideMusic
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Dusk of the Ages è il nuovo album dei Furor Gallico, storica band folk metal italiana, capace di coniugare storytelling eccellente e fruibilità musicale.

Noi nati nei tardi ‘80/primi ’90 abbiamo avuto un’enorme fortuna: Internet, ma nessun servizio streaming. Abbiamo quindi imparato a fruire della musica in maniera, diciamo, encliclopedica, perché quando ti scaricavi giga e giga di discografie lo facevi senza discriminare, e, prima di tutto, andavi a leggere le recensioni. A suo tempo, Metallus era il mio miglior amico.

Un bel giorno, ricercando band simili agli Ensiferum, ai Blind Guardian, capaci dell’epòs e delle vette narrative degli Haggard, ma melodici come gli Eluvetie, mi imbattei in qualcuno che era proprio là, dietro l’angolo: gli italici Furor Gallico. Capaci della potenza espressiva dei primi Rhapsody of Fire – quelli di Dawn of Victory, e quella leggendaria formazione – , l’italica ispirazione per le marcette che, per dirla come un famoso critico musicale del passato “hanno più da dire di ore e ore di opere classiche teutoniche”, complice anche una grandissima capacità tecnica: eccoli là, i Furor Gallico, che si facevano strada nel poco fiorente panorama folk metal italiano, nel lontano 2008, con il loro primo EP, The Glorious Dawn. C’era un festival, dalle mie parti, in quel periodo, e si incontrarono Furor Gallico, Elvenking, e non ricordo che altra band folk metal. Fu una delle mie prime sbronze.

Anni ed anni son passati, dieci, lunghissimi anni, ed eccoci qua, con la quarta fatica dei Furor Gallico, pubblicata per l’italianissima Scarlet Records: Dusk of the Ages, il crepuscolo delle ere.

L’album è stato sviluppato con alcuni maestri del settore: prodotto da Ralph Salati, già produttore dei Destrage, con collaborazione di Gabriele Consiglio (chitarrista dei Furor Gallico) mixato da Tommy Vetterli (chi conosce gli Eluvetie saprà chi è), e masterizzato da Jens Broghen, uno che ha lavorato con sconosciuti come Amon Amarth e Opeth.

Il precedente album dei Furor Gallico risale a tre anni fa circa, ed è Songs from the Earth: complice una produzione un po’ raffazzonata, molto del buono espresso – anche con pregevole ricerca in chiave blues – viene perso dietro echi di chitarre poco definite e orchestrazioni distantissime.

Dusk of the Ages dei Furor Gallico (Scarlet Records): tracklist e artwork

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01 – Passage to a New Life
02 – The Phoenix
03 – Waterstrings
04 – Nebbia della mia Terra
05 – Canto d’Inverno
06 – Starpath
07 – Aquane
08 – The Sound of Infinity
09 – Dusk of the Ages
10 – The Gates of Annwn

Il problema sembra essere stato magistralmente risolto, in Dusk of the Ages. L’intro, infatti, descritta da Passage to a new life, vede tipici effetti medioeval rock come gocce, vento fra gli alberi, flauti, perfettamente mixati per rendere il suono rotondo ed avvolgente, trascinando poi in un bel riff di chitarra acustica successivamente espanso per archi e percussioni. Il brano, in sé, lascia trapelare un’aura di mistero, leggermente interrogativa, ripresa dal cantato di Davide Cicalese, che appare essere ulteriormente migliorato dal precedente album. Il brano si chiude ex abrupto, riprendendo il vento lontano dell’inizio. È il crepuscolo dell’era dell’uomo, che tornerà a riposare nel lago Cuivènen con gli elfi che non si sono mai svegliati.

Non c’è tempo per fermarsi e Dusk of the Ages prosegue col singolo, che, lasciatemi sfogare, è una bomba nucleare imbellettata di fiorellini, vernice tribale blu e laghetti celtici: The Phoenix. Chitarre roboanti e doppia cassa, che fanno così Dimmu Borgir e così brodo di giuggiole, che vanno ad aprirsi in un – si fa per dire – arioso growl alternato ad una soave voce femminile. Archi celtici vanno a cambiare accordo e tempo, ad ogni strofa, proponendo anche una middle section a voce pulita pregevolissima, andando a fornire una componente progressive che non guasta mai: il risultato è incredibilmente orecchiabile e gradevole. Di nuovo, vanno premiati produzione e mastering, in quanto ogni strumento – fin all’arpa celtica di Becky Rossi– è perfettamente distinguibile e ben armonizzato. Il finale è affidato ad un assolo del chitarrista Gabriel Consiglio, che sembra riprendere canoni dell’hard rock per inserirli in un contesto celtico. Bellissimo.

Dopo quasi sette minuti catartici, fenice che brucia e rinasce come glorioso, fiero, pulcino spiumato, proseguiamo con la decisamente più calma – quasi chill out – Water Strings. Si parte con l’arpa celtica di Becky. Valentina Pucci, dotata di voce sopranile utilizzata a mò’ di Sharon den Adel dei Within Temptation, introduce quindi un tema che sarà quello portante dell’intero brano: la tipica esplosione di cornamuse, archi, chitarre varie, che contraddistingue il folk metal. Il refrain, affidato ad entrambe le voci, rende il brano una sicura hit live, complice anche la mid section che rende favoloso un brano già ottimo. Rivoletti d’acqua scorrono fra radici – coperte di muschio – che sporgono dal terreno in uno scosceso sentiero di montagna.

Con Nebbia dalla mia Terra abbiamo finalmente un brano in italiano, uno di quei momenti felici che fanno sorridere anche il metallaro più incallito, barbuto, e che a quarant’anni va ancora in giro con gilet neri con le toppe cucite: abbiamo tutti gli elementi di divertimento per una band folk. Tante, tantissime cornamuse, voci pulite e growl, esplosioni di bouzuki, e doppia cassa, e stop improvvisi, per una costruzione però un po’ scontata che manca dell’originalità dei primi tre brani.

Si prosegue, sorprendentemente, con la lingua italiana: Canto d’Inverno. Che ci ricorda, fin dal concept, Il Canto del Vento dei Rhapsody of Fire con la voce di Fabio Lione. Abbiamo qui, però, una power ballad fatta di flauti celtici, boschi profondi dove violinisti girovaghi suonano nelle radure: un brano che parla dello spirito del Grande Inverno, grazie alle voci intrecciate femminile e maschile, l’una una terza sopra all’altra a fornire maggior spessore di orchestrazione. La Regina dell’Inverno, Jadis, de le Cronache di Narnia sarebbe orgogliosa dei Furor Gallico.

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Torniamo all’inglese con la potentissima Starpath, sentiero della stella. Un violino impazzito introduce il tema del brano, serpeggiando qua e là fra i riff di chitarra ed il growl di Davide, come una stella cadente sonora. Il brano è un tuffo nel death/gothic metal dei Tristania e dei Furor Gallico stessi del loro omonimo album del 2010: fra scream e growl, la componente ritmica fa un grandissimo lavoro di creazione di un panorama su cui si installano le sperimentazioni vocali. Decisamente insolito è il bridge, affidato a arpa e percussioni su un tappeto di archi e poche note di chitarra acustica, che va poi ad evolvere nel proseguimento del brano, sorprendente nella sua componente prog del Terzo Millennio: ecco i Ne Obliviscaris, ma riarrangiati con quel gusto tutto italiano per la melodia-che-abbia-molto-da-dire.

E per non uscire dallo stile mega- canzoni del prog, ecco che arriva Aquane, introdotta da un giro di chitarra che fa così tanto seventies, così tanto Procol Harum, che ci si dimentica quasi di essere in un disco folk metal, finchè non arriva il mega riff di chitarra. Un brano riccamente narrativo, come sempre nei brani dei Furor Gallico, è composto di vari movimenti: il primo, voce in scream, parla di un incantesimo di trasmutazione, accompagnato da un flauto sincopato; nel secondo viene introdotta la voce di Valentina Pucci, che si intreccia alla voce pulita virile, in una poetica – quasi d’annunziana – descrizione dell’acqua in cui è stata trasmutata la persona del primo movimento, ed una chitarra semplicissima, ma efficace, chiude l’evento musicale. Al terzo movimento, torna la voce in scream, e la doppia cassa stile Dimmu Borgir fa impazzire il flauto. Qui, il batterista Mirko Fustinoni mostra tutta la sua abilità, sorreggendo l’intero impianto, che guida fino al ritorno del secondo movimento: si scopre che Aquane non è altro che un meta-brano sulla potenza distruttrice e creatrice dell’acqua stessa, e che quella batteria imperiosa, tuonante di nubi livide, che i riff di chitarra talvolta violentissimi – come tsunami – talvolta delicatissimi – come ruscelli gelidi di montagna – sono un’estensione di quanto cantato dai due vocalist. Dopo otto minuti di brano, cosa altro si può chiedere a Dusk of the Ages?

Per i metallari più tristi e furiosi col mondo ce n’è ancora, ed ecco che arriva The Sound of Infinity: percussioni di sabbia e quartetto d’archi ad introdurre una chitarra acustica che dà il la ad un ottimo brano strumentale, dominato poi dal violino solista.

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Siamo quasi alla fine. C’è Dusk of the Ages, la title track, che parte con inenarrabile violenza e prosegue con altrettanta: le cornamuse vengono quasi dimenticate, sommerse dal growl e da una chitarra durissima. Brano forse un po’ sottotono, si affida fin troppo alla formula growl-refrain voce pulita-tappeto pianistico e orchestrale, passa senza lasciar molto – un unicum, finora, nell’album.

Il grande, grandissimo, finale, è affidato ad un’altra suite, The Gates of Annwn. Sound durissimo fin dall’inizio, si mantiene su tale linea per circa un terzo di canzone, il che, purtroppo, spegne l’inventiva mostrata in Aquane; un improvviso ed inaspettato cambio di ritmo e accordo riaccende, con riff e arpa, le speranze, con un crescendo chitarristico death metal. Il brano, nonostante l’impegno profuso da Consiglio nelle chitarre, manca del mordente mostrato dal resto dell’album.

In sostanza, Dusk of the Ages è un ritorno alle vette dei Furor Gallico, dopo lo sforunato Songs from The Earth: è un album sensuale, dal momento che i musicisti nostrani sono riusciti a colpire molteplici sensi, evocando immagini naturalisticamente pregevoli e proponendo soluzioni stilistiche di ottima fattura. I Furor Gallico hanno anche avuto un occhio di riguardo per quanto accade nel mondo metal tutto, lanciandosi in ardite tessiture progheggianti che non possono che aumentare il valore artistico di Dusk of the Ages. Su tutte troneggiano due canzoni: The Phoenix, e Aquane. E – ne siamo certi – stavolta i Furor Gallico otterranno anche in patria il successo che meritano.

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