Continuiamo i nostri approfondimenti che mettono in correlazione la prima arte – la pittura – con la quarta, la nostra preferita, la musica. Chi lo ha detto che le arti fra di loro si posso racchiudere in compartimenti stagni, evidentemente non è stato di ispirazione per David Bowie ed Andy Wharol, che invece hanno fatto di tutte le arti l’essenza delle loro vite.
Vite le loro che si intrecciano in più snodi, ma la punta dell’iceberg è nel brano “Andy Wharol” composto dal Duca Bianco in omaggio al suo mito di sempre. Cerchiamo di capire di più su questo brano, quale è stata la sua genesi, quale messaggio si cela dietro, insomma la sua apologia.
Gli anni in cui Wharol faceva dei prodotti di uso comune, di largo consumo, l’oggetto del suo estro, affiancando al termine “arte” il termine “popular”, sono contestualizzabili nel secondo dopoguerra, in un clima di rinvigorimento economico e sociale, gli anni dell’avvento della Fiat Cinquecento in Italia, della Coca Cola o della zuppa in scatola in America. Un termine troppo spesso bistrattato dalla critica che ha da subito accostato a “kitsch”, cosa che succede anche adesso con la musica pop, che da melodie e testi che nascono con l’ambizione di arrivare a tutti, finiscono per essere vista di cattivo occhio dagli amanti delle nicchie.
Andy si laureò nel 1949 in arte pubblicitaria presso l’ attuale Carnegie Mellon University della sua città, poi si trasferì a New York, dove lavorò per molte riviste, come Vogue e Glamour. Ideò la Factory, una vera fucina di talenti in ogni forma d’ arte, in cui passarono talenti come Jean-Michel Basquiat, poi musa di John Frusciante tanto che lo spinse a lasciare i Red Hot per allestire una sua mostra artistica, Francesco Clemente, Keith Haring, e il più noto Lou Reed, musicista. Nel 1971 il leggendario David Bowie, rimase così affascinato da Warhol da dedicargli l’ omonima canzone nel monumentale album “Hunky Dory” del 1971, che ho scelto per ricordare l’ artista. Omaggio da cui l’estroso Warhol non ha mai mancato di prendere le distanze.
«Andy Warhol è uno spasso
Lo appendo alla mia parete
Andy Warhol, schermo d’argento
Non li si può assolutamente distinguere.» [D. Bowie]
L’interesse per la mente della Pop Art era emerso già nel 1969, quando Bowie aveva tentato con scarso successo di ricreare un “laboratorio artistico” ispirato alla Factory dell’artista americano. Proprio durante questo periodo di produzione artistica, il Duca provò a cucirsi addosso il gusto della fusione tra musica e arte, personalizzando il suo look sfruttando una serie di registrazioni di conversazioni avvenute nei salotti di New York e che racchiuse in una mostra “Pork” che espose alla Rondhouse di Londra.
Questa commistione di intercettazioni, look avanguardista e musica convinse Bowie di poter essere un esponente della corrente americana a Londra. Alcuni mesi dopo la conclusione della mostra registrò il brano “Andy Warhol” e, in occasione della trasferta USA per firmare il contratto con la RCA ebbe luogo il primo incontro con Andy Warhol a cui Bowie fece ascoltare l’acetato appena stampato.
«Lo detestava, assolutamente», ricordò nel 1997, «era imbarazzatissimo, credo che pensasse che in quella canzone io lo buttassi giù, ma non era affatto quella la mia intenzione, era piuttosto una sorta di ironico hommage che gli dedicavo. La prese veramente male, ma gli piacevano le mie scarpe».
Nel 1996 il cantante ha interpretato proprio il ruolo di Warhol nel film Basquiat di Julian Schnabel.
“Metti uno spioncino nel mio cervello
Due penny per dare un’occhiata
Vorrei essere una galleria
Mettervi tutti nel mio spettacolo!” [Andy Warhol – D.Bowie]
Un viaggio all’interno della cultura pop, cadenzato di musica di cui il precursore è proprio David Bowie, affiancato da Lou Reed (discepolo di Warhol) e dai Roxette, per indagare l’evoluzione dell’arte e viceversa, ovvero come l’arte sia stata fonte d’ispirazione della cultura pop; pensiamo alla libertà creativa della British Art-School degli anni Sessanta o al fenomeno del “camp” che emerse a New York nello stesso periodo. L’arte, la musica e la moda confluirono in un unico “melting pot” che ha segnato un periodo e che spesso viene rievocato, riletto e reinterpretato attraverso lo sguardo della contemporaneità.
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