Si pensa ai Queensryche e si pensa a Geoff Tate. E’ inevitabile. Il singer è stato fondamentale per la storia della band, ideatore di tanti capolavori del gruppo, uno dei grandi nomi del Progressive Metal. La diatriba che lo ha allontanato dalla band statunitense resta un grande rammarico e aveva lasciato un vuoto che sembrava incolmabile, per capacità e idee.
Eppure, dopo la sua dipartita, i Queensryche si sono affidati a Todd LaTorre, capace di ricevere un così pesante testimone senza battere ciglio. E The Verdict conferma il suo buon momento, insieme agli altri della band. E’ un album che va dritto al sodo, quello che deve dire lo dice senza farsi attendere.
Blood of the Levant entra subito a gamba tesa, un riff d’impatto e una strofa che cattura subito l’attenzione dell’ascoltatore. Da lì al cantare il ritornello è un attimo, i Queensryche non lasciano scampo. Il resto del brano gioca abilmente su ricami Progressive, arricchendo l’amalgama. Non da meno la successiva Man the Machine, che mantiene le atmosfere Heavy e i ricami Prog, senza perdere di vista l’obiettivo numero uno: mai perdere il contatto con l’ascoltatore.
L’ipnotica e criptica introduzione di Light-Years è solo il primo assaggio di un brano fenomenale, forse il migliore del disco. Il riff aggressivo con cui si apre la canzone dà il via a un Heavy Metal estremamente moderno e groovy, arricchito poi da finissimi giochi di ritmo e tempo. Del resto, se sono considerati tra i padri del Progressive Metal insieme ai Dream Theater, un motivo ci sarà pure. E lo special con intreccio di basso e batteria è da capogiro, un estatico disorientamento. Inside Out invece ci proietta in un mondo mediorentale. Le atmosfere dell’Oriente presentate nell’intro e nella strofa sfociano in un fiume Heavy vecchia scuola, per poi aprire a una sezione più onirica. L’intreccio degli arpeggi con una batteria essenziale e un assolo fumoso è una pregevole chicca.
Ma per non perdersi subito in atmosfere troppo distese, ecco arrivare Propaganda Fashion, scandita a tambur battente. Il ritmo serrato delle strofe sfocia in un ritornello aperto, indimenticabile. Il momento dell’assolo è una rivelazione, senza esagerare in tecnicismi e sfruttando invece i pregi della tecnologia, dando un tocco industrial.
Con Dark Reverie invece si entra in un mondo più malinconico: magistrale qui l’esecuzione di LaTorre, perfettamente sostenuto da un esercito di tastiere. Il ritornello è sicuramente la parte migliore: facile da memorizzare e con un complesso compositivo di notevole fattura.
Più aggressiva invece la partenza di Bent, carica di ritmiche poderose e arricchite di sonorità industrial e dissonanze che strizzano l’occhio al Metal più contemporaneo. A tenere stabilmente in piedi la canzone ci pensa una batteria puntuale, precisa, non esagerata, semplice, ma non banale. Il brano più lungo dell’album si muove verso una sezione di assoli guidato da un unisono vecchio stampo di un’efficacia strabiliante.
Mentre Inner Unrest manca leggermente il colpo – risultando un brano carino, ma sottotono rispetto al resto della tracklist -, Launder the Conscience miscela magnificamente Heavy Metal, Progressive e una futuristica sezione dialogata. Il finale poi avviato dal pianoforte è qualcosa di inaspettato e geniale, creando l’ottimo quid in più per alzare la posta in gioco.
Portrait conclude l’album con un’introduzione molto lenta e atmosferica, mantenendo questo approccio un po’ malinconico fino al ritornello. Il ritornello è un pregio d’autore, accompagnando l’album a una chiusura di diverso approccio rispetto al resto del disco. Il modo migliore per concludere un album frenetico e aggressivo.
The Verdict è uno splendido album che dimostra come la vena ispirativa dei Queensryche sia tutt’altro che prosciugata. Solido, ricco di idee, pieno di sperimentazioni, eppure mai noioso e sempre coinvolgente. La dipartita di Geoff Tate sembra non sia mai avvenuta, la band sembra non aver accusato il colpo. Macina note su note, idee su idee, realizzando un prodotto assolutamente pregiato, da far invidia a parecchi. Soprattutto considerando che il gruppo ha quasi quarant’anni di carriera. E non si sentono minimamente.
I Queensryche mostrano ancora la freschezza compositiva delle giovani band ispirate, ma hanno anche il pregio di giocare con l’esperienza dei veterani. E’ una miscela esplosiva che rende The Verdict un album ben più che piacevole. Sono quarantacinque minuti ottimamente spesi nell’ascolto, un’esperienza che si può tranquillamente ripetere più volte senza mai provare stanchezza. Sorprendenti. Ma sono i Queensryche: lo sono sempre stati.

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