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Chernobyl: recensione della miniserie HBO

by InsideMusic
In maggio 2019 è uscita su Sky Chernobyl, miniserie HBO scritta e creata da Craig Mazin e diretta da Johan Renks, basandosi principalmente sul libro di Svetlana Alexievich, Voci da Chernobyl.

Sapete perché sul nostro satellite, la Luna, non c’è vita come la conosciamo?

Prima di tutto, non c’è acqua libera in superficie. Sì, ce n’è moltissima sottoterra e nei crateri polari, ma non in superficie: è evaporata tutta. Secondo, la Luna non ha una propria atmosfera: non esiste dunque nessun ambiente protetto in cui la vita può fiorire. Terzo, è bombardata dai raggi cosmici, non schermati da un campo magnetico – quella cosa intangibile che, sulla Terra, permette le aurore boreali, l’orientamento con la bussola, e che ci protegge dalla crudeltà dello spazio profondo. I raggi cosmici sono nient’altro che raggi gamma e raggi X, ad elevatissima frequenza ed energia, capaci di spezzare in mille frammenti le molecole base della vita come la conosciamo – proteine e DNA.

Uno dei pochi eventi sulla Terra che hanno portato alla nascita di un ambiente simile alla superficie lunare è stata l’esplosione e fusione del nocciolo del reattore 4 della centrale nucleare di Chernobyl, nel 1986. Con l’aggiunta, però, di materiale simile a quello del nucleo terrestre: isotopi radioattivi di atomi massivi, Cesio, Uranio, Plutonio, Xenon, che lanciavano radiazioni di neutroni e raggi alfa e beta in tutte le direzioni, per migliaia di chilometri quadrati. La crudeltà dello spazio profondo, in un’epoca in cui la corsa allo spazio era già sulla via del tramonto, era approdata sulla Terra, a causa della stupidità umana e della rude legge del dio denaro.

Se un Dio c’era, a Chernobyl, nell’aprile del 1986, è di certo finito bruciato.

Oggetto del disastro di Chernobyl è l’omonima miniserie tv, targata HBO (la stessa casa di produzione del Trono di Spade, per capirci) e vanta un cast e una produzione eccezionali: protagonista della serie, il chimico nucleare Valerij Legasov, è Jared Harris, e al suo fianco, nel ruolo del capo della commissione governativa inviata ad indagare sull’evento, Boris Shcherbina, c’è Stellan Skarsgard. Emily Watson, due volte candiata al premio oscar, interpreta il personaggio fittizio di Ulyana Khomyuk, creata per omaggiare i tanti scienziati che hanno scavato per scoprire la verità riguardo l’esplosione del reattore 4. Il tocco di vera umanità della serie è fornito dai personaggi di Lyudmilla Ignatenko (la bella e brava Jessie Buckley, che abbiamo imparato a stimare in Taboo di Tom Hardy) e di Pavel (Barry Keoghan, lanciato in Dunkirk da Christopher Nolan), rispettivamente vedova di un vigile del fuoco e “liquidatore”, ossia uno delle centinaia di migliaia di giovani chiamati a ripulire l’area negli anni successivi al disastro.

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Stellan Skarsgard e Jared Harris

La storia, quella vera e ufficiale, della tragedia, la conosciamo tutti: 26 aprile 1986, Anatoly Dyatlov, assistente campo ingegnere (Paul Ritter), personaggio sgradevole, solitario, bruciato dalla sete di potere, al fine di compiacere il capo-ingegnere della centrale Nikolai Fomin, ed il proprietario della stessa, Viktor Bryukhanov e riuscire ad ottenere una posizione di prestigio, si prende l’onore di eseguire, in notturna, un test di sicurezza tre volte fallito. Come tutti sappiamo, anche la quarta volta quel test – le cui lacune logiche sono comprensibili anche a chi non è un fisico nucleare – fallì, un po’ per gli errori di progettazione del reattore RBMK, un po’ per l’incompetenza di Dyatlov e dei suoi sottoposti. Sostanzialmente poco più che stagisti.

Se l’inferno esistesse, in esso rilucerebbe un bagliore blu: quello delle radiazioni ionizzanti. In sottofondo, il ticchettio di un contatore Geiger (“quello buono, in cassaforte”) che aumenta sempre più, fino al parossismo.

Ed è su quei ragazzi che si concentra l’intero primo episodio di Chernobyl, una vera e propria lezione di narrativa ad un’audience che aveva dimenticato il potere del racconto reale – se si eccettuano le miniserie American Crime Story, fra cui il capolavoro del Caso OJ Simpson. Ragazzi che indossano l’uniforme della centrale, tuta bianca e cappellino di cotone, sfiniti per via del turno di notte, e le cui lacune nella conoscenza di un reattore nucleare sono spaventose. Ragazzi che, infine, si immoleranno nel tentativo di abbassare le barre di controllo del reattore: manualmente. Ragazzi che, invece di dipendenti di una centrale nucleare, avrebbero potuto essere i pompieri chiamati a spegnere un’incendio di grafite, uno stato allotropico del carbonio che impiega settimane ad esaurirsi: ragazzi che hanno respirato Xeno radioattivo, Cesio radioattivo, i cui polmoni sono cosparsi di radionuclidi e che moriranno dopo poche settimane fra atroci sofferenze (ai più duri di cuore, invito a leggere il resoconto medico su Ouichi Hisashi, avvelenato durante l’incidente di Tokaimura).

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Il che equivale all’incirca a trovarsi a contatto col nucleo del diavolo, una sfera di plutonio di cui vi avevamo già parlato. Nel primo episodio si scopre anche il tragico epilogo dello scienziato Legasov, non frutto di fantasia, ma cruda realtà: impiccatosi alla ringhiera di casa propria.

La narrazione, punto forte di Chernobyl, è cruda, ma non didascalica: le persone parlano, parlano, continuamente, così continuamente da far immaginare che lo facciano anche quando non li guardiamo. La Khomyuk interroga a più riprese gli stagisti, gli apprendisti, che hanno dato la loro vita lanciandosi senza esitazione ad abbassare le barre di controllo per rimediare agli errori di Dyatlov, che morirà senza rimorsi nel 1995: cadaveri ambulanti, in quanto il quantitativo di radiazioni assorbite ha così irreparabilmente danneggiato il corredo genetico da rendere impossibile la rigenerazione cellulare. Lyudmilla, nel mentre, incinta, riesce a rintracciare il marito in un ospedale di Mosca: il feroce resoconto della sindrome acuta da radiazioni cui il marito, coperto di piaghe, che lei amorevolmente accarezza, è affetto, è uno dei punti più alti della televisione degli ultimi anni – la morte di un uomo innocente per l’incompetenza altrui; in ogni lembo di pelle che si stacca, in ogni incubo lucido, nella gioia prima della pazzia causata dalle proteine amiloidi collassate nei neuroni, c’è un grido di rabbia, che Ulyana e Valerij non osano, fino alla fine, tacitare, pur andando contro al KGB e alla damnatio memoriae. Altrettanto feroce, se non bestiale, è la descrizione, sporca come i mangiatori di patate di Van Gogh, della recluta e del lavoro dei minatori di carbone, impegnati a scavare un tunnel sotto al reattore 4.

Riguardo il personaggio di Dyatlov, la sceneggiatura di Chernobyl, curata da Craig Mazin, non fa nulla per assolverlo. Uomo sgradevole, incosciente fino in fondo, mai neppure toccato dal risentimento di aver causato volontariamente migliaia di morti, mai pronto a chiedere scusa neppure di fronte al suicidio di Legasov; lo stesso vale per Fomin e Bryukhanov, ometti come non solo la grande madre Russia ha sfornato, ma che si ritrovano in ogni nazione del mondo, di qualunque estrazione sociale. La scrittura dei personaggi principali, soprattutto degli impiegati dello stato, è, invece, tridimensionale e ben calibrata, lontana anni luce dai ritratti inutilmente crudeli e tipicamente americani dei rivali per la spartizione del mondo.

La regia di Johan Renck, regista svedese proveniente dal mondo della pubblicità e da The Walking Dead, è poco invasiva e lascia fluire il racconto, spesso dagli occhi dei protagonisti, come nel caso dei liquidatori impegnati a rimuovere la grafite dal tetto dell’edificio; un plauso va alla scelta degli stacchi, ben bilanciata nell’impatto emotivo, che smuove lo spettatore ma evita di creare un dolore insopportabile – come pure le inquadrature ai corpi martoriati delle vittime sono discrete, lasciando il giusto spazio alla sofferenza privata. Make-up che sicuramente riceverà premi di settore.

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Uno dei punti che, sicuramente, hanno colpito maggiormente l’audience in Chernobyl è la freddezza della sua fotografia, a cura di Jacob Ihre. In un mondo di prodotti iper-colorati, contrastati, saturi, Prypjat è una città morta, grigia, in cui i ragazzini e i militari sparano ai cani e i cadaveri degli uccelli cadono a frotte; palazzoni sovietici si stagliano sullo sfondo delle ciminiere della centrale, i cui sotterranei sono bui e oleosi, ticchettano di contatori Geiger impazziti; perfino la brace delle sigarette di Legasov e Shcherbina appare di un rosso spento, stanco. Quasi come se la fissione nucleare fosse un processo endoergonico: come se tutta l’energia della zona fosse stata risucchiata dal corium del reattore. Stesso minimalismo appartiene anche alla colonna sonora di Hildur Guðnadóttir, navigato violoncellista e compositore islandese, che ha fatto propri i sinistri suoni dei contatori Geiger, del brontolio delle condotte dell’acqua di raffreddamento, delle onde elettromagnetiche che tutto distruggono. Il coro di fantasmi del brano che si ode nell’ultimo episodio, omonimo al titolo Vichnaya Pamyat, ricorda a tutti la tragica storia degli eroi dimenticati che hanno impedito che l’Europa dell’est divenisse sterile come la nostra Luna.

Passiamo, ora, alle note dolenti: innanzitutto, vi sono notevoli inaccuratezze scientifiche. Coloro che sono colpiti da una radiazione ionizzante, non sono radioattivi di per sè, una volta decontaminati; sebbene di forte impatto emotivo, le conseguenze per Lyudmilla nel toccare il marito sarebbero state pressochè nulle, se non causare al poveretto una gravissima infezione all’epidermide, data la totale distruzione del midollo osseo e l’assenza di sistema immunitario. Inoltre, il piccolo e pregevole zoom su un liquidatore, Pavel, suona fin troppo hollywoodiano (la solita storia del ragazzo innocente che si fa le ossa sul campo e diventa una macchina di morte), oltre al gravissimo fatto che, stando alle parole del generale Nikolai Tarakanov, interpretato da Ralph Ineson, capo dei liquidatori e tuttora in vita, l’operazione di uccisione di massa di animali domestici non è semplicemente mai avvenuta,come ha negato in un’intervista. Attualmente, peraltro, la zona di esclusione conta una gigantesca popolazione di cani e gatti inselvatichita, cosa impossibile se tale operazione fosse stata portata avanti.

Vista aerea della città di Prypjat. credits: shuttershock/Podorojniy

Tali difetti sono, però, apprezzabili, se si inscrive Chernobyl nell’attuale contesto meramente fantastico o crime delle serie tv: il pubblico aveva perso il gusto per il racconto, per la storiografia, per la verità. Siamo stati così ingozzati, drogati, di bugie, di fantascienza, di allegoria mascherata, di cinecomics, da aver dimenticato le reali tragedie. Da aver dimenticato che dietro ogni storia ci sono delle persone, e da aver dimenticato troppo presto le tremende conseguenze della stupidità e dell’ottusità umana. All’epoca, nell’URSS, c’erano 15 reattori RMBK con lo stesso difetto di fabbricazione di quello di Chernobyl: ci sono voluti dieci anni perché essi siano stati sostituiti. Ci sono voluti quasi trent’anni perché la centrale di Chernobyl smettesse totalmente di funzionare: fino al 2016, fino a che il presidente Ucraino non ebbe toccato personalmente il pulsante AZ-5, almeno un reattore dei quattro era funzionale, non senza fughe di radiazioni.

Assieme al nucleo, quel giorno fu scoperchiata una dittatura, un intero impero, che era sorto sulle ceneri di un altro, non meno misericordioso: quello russo. Fu Gorbacev stesso ad ammettere che forse quell’incidente fu la prima pietra sopra la tomba dell’URSS.

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