Boosta: “Otto ha avuto una genesi riassumibile in una frase: l’esigenza di fare ancora musica insieme”
Poche sono le band che sono riuscite a sopravvivere nei decenni facendo la propria musica e i Subsonica di Boosta e compagni ne sono l’esempio. Apripista del mondo elettronico italiano, la band torinese ha una storia quasi sempre controcorrente e coraggiosa, erano gli anni novanta quando in un loro testo parlavano di transessualità con “Aurora Sogna” o della disperazione adolescenziale affogata nel vizio del sesso e dell’autolesionismo in “Albascura”. Il loro Microchip Emozionale ha segnato una generazione, riuscendo ad essere anche lo spauracchio di loro stessi, come ci ricordano in “Benzina Ogoshi”. Eppure i Subsonica, precursori dei tempi, non smettono (fortunatamente) di dire la loro, e lo fanno in grande stile con un ritorno numerico, “Otto”, come la quantità degli album composti insieme. Un album dalla genesi semplice e con un fil rouge unico: la voglia di ritrovarsi e tornare a divertirsi facendo la cosa che amano fare, musica sui palchi.
In rappresentanza della band, scambiamo quattro chiacchiere con Davide Dileo, aka Boosta, il tastierista stravagante, acrobatico e – non smetterà di ripeterlo – grato, della subsonica band.
Bentornati Subsonica, che ci avete accolti con un “ma adesso siamo qui” ripetuto in loop, a gruppi come voi e davvero pochi altri, noi italiani dobbiamo la genesi della musica elettronica made in Italy. Siamo all’album numero otto, dopo ventidue anni di musica il brand Subsonica resta un caposaldo. Boosta ci racconti che genesi ha questo nuovo lavoro?
Ciao Fabiana, innanzitutto grazie per la presentazione che mi sembra sin tanto eccessiva. Noi siamo molto contenti di essere tornati, o meglio di non aver mai smesso di adoperarci in quello che ci piace fare da ventidue anni, ossia fare musica quando abbiamo l’esigenza di farlo. Ci siamo presi un minimo di riposo, che mi auguro sia stato sano, ognuno ha coltivato la sue passioni, le sue aspirazioni e le sue insipirazioni. Quando non si suona come gruppo da un po’ di tempo la rigenerazione della musica fatta insieme, più che dei rapporti, passa attraverso il prendere un pochino di fiato e guardare oltre il proprio giardino, per quanto rigoglioso possa essere. Quindi Otto ha avuto una genesi riassumibile in una frase: l’esigenza di fare ancora musica insieme. Nel corso degli anni ti rendi conto che ci sono dei momenti in cui hai proprio bisogno di farne ed altri no, bisogna essere anche molto onesti su questo, ma quando poi abbiamo la necessità di fare un disco, ci accendiamo. Io in prima persona ho l’onere e l’onore ormai – più per scaramanzia che per altro – di dare il primo calcio al pallone, mando sempre una mail in cui faccio gli onori di casa chiedendo come stiamo, e proponendo di rimetterci in gioco partendo con dei pezzi già a disposizione; ci sono degli automatismi che davvero restano nella storia, non è mai difficile lavorare tutti insieme. Otto è nato anche abbastanza velocemente, sia perché c’erano già molti pezzi che tanta voglia di tornare e quindi anche se passa del tempo da un disco ad un altro, non è il tempo reale in cui manchiamo dalle scene, poiché i nostri live durano sempre due anni.
L’Otto è il simbolo dell’infinito, dove nulla finisce, ma c’è solo un continuo ciclo che non ha fine; rappresenta l’integrità e la completezza dell’età matura. Maturità e autonomia sono le parole chiave di questo album secondo Boosta, dunque?
Autonomia mi auguro proprio di si, maturità penso di no in quanto l’artista per definizione non dovrebbe mai fare lavori maturi, perché una volta raggiunta si marcisce subito dopo. Noi ci auguriamo di risultare sempre un po’ acerbi, il nostro lavoro è una pianta che ci piacerebbe vedere crescere e farlo a lungo. Dopo la maturità c’è solo la caduta del frutto. Quindi ci auguriamo di essere ad un passo precedente dalla maturità definitiva. Per quanto riguarda invece l’autonomia, quella sicuramente, ma abbiamo anche un’età che ce lo consente. Facciamo il lavoro che ci piace, viviamo ancora con la nostra passione che è quella di fare musica e siamo dunque molto soddisfatti. Adesso stiamo cominciando un tour nuovo ed è un tour che vedrà molte persone su quel palco, che non è mai stato usato prima di noi. Quindi va tutto benissimo così, in autonomia totale, senza cercare di farci mai vincolare da tutte le possibili variabili che conosciamo e possiamo immaginare.
Quindi Boosta, sostituiamo maturità con crescita?
Assolutamente sì.
Willie Peyote, vostro conterraneo, è l’unico featuring presente nell’album, al contrario del tuo progetto singolo in cui le collaborazioni superavano le tue performance soliste. Guglielmo ha anche annunciato sui suoi canali social che sarà presente in tutte le tappe del vostro tour, come nasce questo contributo artistico?
Nasce per piacere essenzialmente. Quando fai un disco è come quando rifai casa e poi hai piacere di invitare in essa le persone che ti piacciono. Lui aveva fatto un’intervista in cui affermava che i Subsonica erano il gruppo con il cui disco lui aveva immaginato di poter fare musica nella vita, noi di contro lo abbiamo trovato molto assonante con quelli che erano i Subsonica di qualche anno fa, anche se il genere è diverso. Tra di noi abbiamo sempre detto scherzando, ma neanche troppo, che Willie sarebbe potuto essere uno degli artisti dei Murazzi degli anni d’oro, quindi degli anni ’90, perché ha una capacità che non hanno tutti gli artisti di adesso, sia di fare gente ai concerti ma queste stesse persone riescono anche a fare comunità tra di loro. È una musica che fa rete e che ti invita a riflettere, è un ascolto su un altro livello ed è molto assonante con quello che abbiamo sempre fatto noi.
“In fondo a cosa serve questa libertà quando non sai che fartene”, è una frase che mi ha segnata sin dal suo primo ascolto. Mi ha aperto un varco temporale sul famoso “aut aut” di Kierkegaard di fronte al doppio cammino dell’uomo, dapprima nella dissolutezza e ricerca spasmodica della mondanità e poi improntata solo verso i valori etici. Che prezzo ha libertà, per Boosta?
Questa è proprio una bella domanda in effetti, perché se ti dovessi rispondere in maniera semplice ti direi mille definizioni. Io credo sia la possibilità di sbagliare, la capacità e il meraviglioso privilegio di potersi esprimere. A me piacerebbe che libertà venisse sempre associata con responsabilità, perché libertà non vuol dire essere anarchici e basta – anche se un pizzico di anarchia è necessaria per poter vivere – essere liberi vuol dire avere rispetto della libertà. Prima che trovare il significato o il prezzo della libertà, bisognerebbe averne profondo rispetto. Noi naturalmente abitiamo in una società civile, questo implica legami, vincoli, relazioni, e in un momento storico difficile come questo, a maggior ragione bisogna avere senso di responsabilità nell’essere liberi. Questo secolo è per noi occidentali, europei, italiani, cittadini, uno dei periodi di libertà più totale e questo può risultare fuorviante. Se riuscissimo ad associare un pizzico di responsabilità alla nostra libertà vivremmo in una situazione civile un pochino migliore.
Hai parlato dei tempi attuali, un tema tanto discusso in questi giorni è proprio quello della “Bontà”. Le vicende della cronaca odierna ci pongono di fronte scenari di odio e razzismo in ogni forma. È un brano che pone dinanzi a noi il conflitto che tutti viviamo tra i buoni precetti e la loro reale messa in opera, senza però fornire soluzioni. La tua quale potrebbe essere per uscire da questa empasse di sentimenti umani?
Io credo che il problema non è tanto nella vuotezza o nella poca abbondanza di sentimenti, ma nella mancanza di consapevolezza di quello che siamo, di quello che abbiamo e di come sia importante tutto quello che possiamo generare intorno a noi con ogni semplice azione. Non credo che sia un periodo così triste, credo piuttosto che ci sia un racconto totalmente sbagliato su molti punti di vista circa quello che succede perché è utile, perché un racconto sbagliato ti permette di muovere le carte che ti servono. È un po’ come quando tu racconti in casa qualunque cosa dando soltanto la tua impressione. Questo lo dico per chi dirige – in questa società civile – che dovrebbe sempre avere la responsabilità di regalare un racconto più preciso possibile e fatto con consapevolezza. È un periodo difficile, è vero, ma è anche un periodo pieno di risorse e possibilità. Se uno non riesce ad ammettere anche dirigendo, che la possibilità è un dono molto più grande di quello che poteva esserci nell’ottocento, vuol dire che sei in malafede.
“Quando raggiunsi i 300 piedi, compresi che il cielo sarebbe stata la mia casa. Scesi dal velivolo con le stelle nei miei occhi” ha sostenuto Geraldyn Cobb, la famosa aviatrice statunitense. Tu sei pilota di velivoli, conosci quindi sia la terra ferma che il cielo. È quella l’impagabile sensazione di libertà?
Il cielo ti fa sentire piccolo, quindi probabilmente sì. Libertà vuol dire sentirsi piccoli, perché se hai la percezione di essere un granello in un mare infinito, oggettivamente ridimensioni una serie di aspettative che hai nei tuoi confronti e nei confronti degli altri. Il cielo per me è bellissimo, vuol dire cambiare prospettiva, staccare l’ombra da terra, posso farti mille esempi, poi sta a te scegliere la metafora più appropriata per raccontarlo. Ma quello la realtà è quello che ti abitui ad avere stando in aria è molto affascinante, in qualunque modo tu voglia raccontarlo.
A proposito di ricerca spasmodica di mondanità, di vite in vetrina e dei famosi “15 minuti di celebrità” citati già da Andy Warhol, metafora che avete utilizzato per presentare il primo singolo di Otto, Bottiglie Rotte. Qual è il difetto di cui pecca maggiormente questa generazione, la vanità?
Considerando che nel settecento e nell’ottocento persone adulte e responsabili si riempivano di cipria e si mettevano parrucche, direi di no (ndr: ridiamo), che non siamo ancora a questo.
Non lo so, l’uomo è sempre stato uomo sin da quando ha conosciuto il libero arbitrio e la coscienza di sé che però purtroppo regala una grandissima fortuna e dei grandissimi problemi. La vanità è un problema di sempre, adesso però abbiamo strumenti che ci consentono di essere vanitosi più in fretta, la diffusione del nostro essere vanitosi è molto più rapida di una volta.
Sono “anni senza titolo” questi, che vengono fuori in Punto Critico. Tra le varie combo citate c’è anche il rapporto tra nuove tecnologie e libertà individuali. Quello con i social è un rapporto stretto che avete anche voi. Ho raccolto anche io la sfida social del “decifra i codici” e scoperto la data di uscita dell’album. Boosta come è nata questa idea, era un termometro di gradimento per i vostri fan in merito alla reunion, dopo i vostri progetti individuali?
Sì possiamo considerarlo come un termometro di gradimento, come uno strumento da cui non si può più prescindere se fai un lavoro privilegiato e bellissimo come il nostro, che è anche una passione. Quando riaccendi i motori, giri la chiave, non si accende soltanto una lucina, se ne accendono tante e adesso la tecnologia e i social fanno parte del circo. Ne ha sempre fatto parte, in maniera diversa quando non c’era la possibilità di fare interviste e di diffondere il tutto. Se uno strumento è una possibilità e viene utilizzato in maniera corretta, che ben venga la sua presenza e il suo uso.
Il brano in cui ritroviamo un Boosta a trecentosessanta gradi è “Onde”, che dal titolo sembra ricordare “Onde quadrate” del ’97, ma in quel caso si inneggiava una festa, in questo c’è un ricordo di un amico scomparso. Quanto è stata catartica la musica nella tua vita?
Io credo che la musica sia la forma d’arte naturalmente più accessibile a tutta l’umanità da sempre, perché se per scelta puoi non digitare mai o se per possibilità non hai mai l’occasione di entrare in un museo e guardare da vicino un’opera d’arte, nessuno mancherà della propria colonna sonora nella vita. La musica ha questa capacità incredibile sia di accompagnare la vita di chiunque che di cementare i ricordi e le sensazioni perché è molto più facile sapere dov’eri durante il primo bacio e ti viene subito in mente il pezzo che stavi ascoltando in quel periodo, e ti si apre naturalmente tutta un’epoca di ricordi e di tempo. È per questo che credo che dovremmo avere sempre più attenzione verso la nostra colonna sonora, perché è come essere registi del proprio film e lasciare scegliere al caso la musica all’interno.
Siamo in aria sanremese, voi avete partecipato nel 2000 con l’iconica “Tutti i miei sbagli”, in quella occasione la testata nazionale Repubblica vi ha dato dei “venduti”. Boosta, voi partecipavate come indipendenti e rompevate un po’ gli schemi. Adesso il Festival si è aperto molto a questo filone di musica meno istituzionale. Pensi che finalmente anche i direttori artistici abbiano capito che bisognava coprire anche le fasce d’età giovani di telespettatori, come urlavate voi all’epoca, o cosa ha mosso questo cambio di trend?
Io non lo so, ho cercato sempre di preoccuparmi il meno possibile in questi anni dell’etichetta che avrei dovuto mettere o che qualcun altro avrebbe messo sul mio lavoro. Mi piace far la musica, mi piace la contaminazione, mi piace il pop, mi piace tutto. Volevamo andar a Sanremo e ci siamo andati con la nostra arte. Se mi chiedi un’opinione da Boosta, cioè cittadino italiano, da amante della musica, ti dico che il Festival di Sanremo, essendo il Festival della Canzone Italiana abbia merito e onere di dover raccontare tutta la musica italiana, esserne dunque una fotografia precisa. È come se neanche facessi una fotografia in bianco e nero della musica di questo periodo, ma la fai in un bianco e nero sbiadito. C’è bisogno di colori e questi stanno dappertutto, ci sono i colori predominanti ed importanti così come come quei fasci di musica che sono più di nicchia e non meno nobili. Capisco le esigenze che ci sono per un Direttore Artistico sia televisive che di altra natura ma credo che sia un dovere sia della Rai, che di Sanremo che dell’intera produzione prendere in carico il racconto completo di quello che succede.
Boosta ti saluto facendoti una domanda sul tour. Durante la diretta proiettata sui Navigli di Milano, sei stato proprio tu a sostenere che quella di partire dall’Europa era – ti cito – “Una scelta che nasce dal voler ritrovare la nostra sinergia con il pubblico ripartendo dalle origini, quando eravamo cinque sconosciuti e suonavamo nei piccoli club. Una tappa obbligata per ritrovare noi stessi, nuovamente, anche sul palco, prima di affrontare i palazzetti, e soprattutto il calore della nostra gente”. Boosta come è andata nei vari club e cosa ci aspetta invece nella patria italica?
È andata molto bene, è stato bellissimo rincontrare le persone, anche quelle che hanno scelto di considerare l’Europa – a volte a malincuore, altre con estremo piacere – la loro patria d’elezione. Abbiamo conosciuto tanti ragazzi italiani che si definiscono essi stessi semplicemente europei. E questa è una cosa meravigliosa come il non avere barriere possa essere una possibilità e non necessariamente un pericolo. Suonare dal vivo è sempre un’emozione, quella che preferiamo in assoluto. Questo tour a febbraio sarà più grosso ed imponente, abbiamo studiato un ritorno sulle scene calcando un palco che fosse speciale. Abbiamo sempre cercato di creare degli spettacoli che fossero belli anche al di la dell’ascolto delle canzoni, perché ascoltare la musica dal vivo non è come vederla sul telefonino. Noi siamo felici e ci stiamo preparando per restare nel cuore delle persone che vengono a vederci.
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