Ci siamo, seconda serata del Noisy Naples Fest tutto d’un fiato, nemmeno ventiquattr’ore di respiro che stiamo calcando di nuovo i gradini di questa meravigliosa e storica cavea, l’Etes Arena Flegrea di Napoli per tutt’altro genere musicale rispetto agli headliners di apertura della scorsa serata. A regolare i dettami delle nostre percezioni sonore – ed emozionali ovviamente – stasera è toccato a Simon Green, alias Bonobo, musicista, dj e producer britannico.
Il live è iniziato con “Migration”, title track dell’ultimo successo discografico del britannico Simon – ormai trapiantato negli USA – un brano, così come un album, evocativo di ciò a cui il producer tiene di più, del suo impegno politico e del suo amore verso la madre terra, non patria, ma terra, globo, quello senza confini di etnie, razze o religioni.
I live di Bonobo sono show indimenticabili e ipnotici, in cui la sua musica, che unisce elettronica, nu jazz, trip hop, acquista sfumature e contorni. Novanta minuti avvolti in un gioco di luci, in un beat emozionale, in un loop di psichedelia e riff di chitarra quasi prog, ti avvolgono in un mondo parallelo che oscilla tra deserti rocciosi e radure infinite e spirali fluo che si aprono e chiudono ridisegnando geometrie come sotto effetto di LSD, in cui la pochezza dell’uomo si misura con l’immensità geologica.
Si ma chi è Bonobo vi starete chiedendo, e perchè tutto questo entusiasmo dinanzi all’ennesimo festino techno- elettronico? Simon Green non è l’ennesimo dj giunto sulle scene per riempire locali a suono di dischi strisciati, è reduce dalla pubblicazione del suo sesto album “Migration” – edito dal colosso Ninja Tune – che conferma quanto il suo essere futurista e sperimentatore riesca ad ispirare intere generazioni di producer. Per troppo tempo tacciato di essere il maggiore esponente del downtempo, è attualmente l’unico vero esponente della IDM (Intelligent Dance Music) mondiale (Apparat non me ne volere, ma sono stata anche al tuo live, e so di cosa sto parlando!).
Un disco molto complesso, strutturato e che scava nel passato amore del producer per la house music e UK garage 90’s, con chiare influenze afrobeat e sapori jazzy e incursioni RnB e sfumature trip hop, ma sicuramente difficile da riprodurre live. E invece no, riadattato in full band, riesce a suonare non meglio dell’album, ma con un alto tasso di potenza viscerale, sicuramente aiutato dal fascino dei video proiettati alle spalle, il laptop e i coni di luce che si muovono a tempo e dal mood che questo tipo di ambiente riesce a ricreare, cut – past- scratch. Gran parte dello show è un fluire di note, senza parole, una musica che riesce a raccontarsi da sola. “Cosa ci vuoi comunicare?” ci verrebbe da chiedere all’autore. Le emozioni soggettive, potrebbe essere una sua potenziale risposta. Quelle singole, soggettive, quelle che lasciano parlare in maniera diversa ogni singolo pezzo, in un mondo in cui le parole – spesso vuote e indifferenti – si sprecano.
All’inizio ho definito Migration come il cuore di un amore per un globo che è di tutti, è un incontro di culture, uno stimolo a viaggiare continuamente e realizzare quanto queste esperienze di viaggio (anche solo sensoriale) possano avere su di noi. Senza dimenticare però che il nostro pianeta lo abitiamo, e gli effetti che stiamo causando possono essere irreparabili a lungo andare.
Mentre la musica scorre, Bonobo abbraccia sintetizzatori, salta al mixer, imbraccia la chitarra con riff degni del migliore Axl Rose, la mia mente – forse troppo ammaliata dalle visual così imponenti nello show – mi riporta ad una mostra fotografica vista all’inizio di questo nuovo anno, “Genesi” del maestro Salgado, un progetto realizzato in un decennio che risuona come un canto d’amore per la terra e un monito per i suoi abitanti. Duecento immagini in bianco e nero che raccontano le foreste tropicali dell’Amazzonia, del Congo, fino ai ghiacciai dell’Antartide, dalla taiga dell’Alaska ai deserti dell’America e dell’Africa fino alle montagne del Cile e della Siberia. Tutti luoghi ancora quasi inesplorati, un viaggio alle origini del mondo per preservare il suo (e il nostro) futuro. Insomma la parola chiave è “viaggio”, che sia quello che ha ispirato Sir Green per comporre Migration fino al suo volo che lo ha condotto qui stasera, quello di Salgado immerso nella sua fotografia o della mia mente che, sul sound del mio pezzo del cuore Cirrus ottavo brano in esecuzione, è già volata sulle note di un altro mito della musica mondiale: Serj Tankian– leader dei System of a down. Un’accozzaglia di paragoni? No, semplicemente un flusso emozionale senza barriere di stile o di genere, perchè il potere della musica è la libertà, non l’etichettare tutto e sempre, per proteggersi dalla paura dell’ignoto. Insomma Serj a partire dal 2012 si è impegnato nella pubblicazione di quattro album di genere. Il più rappresentativo – Harakiri – è un punk – rock uptempo impegnato nella tutela dell’ambiente. Harakiri in giapponese è il suicidio rispettoso dell’ambiente, per altro alcune tracce sono state composte grazie all’ausilio di un iPad, quindi di elettronica vi è eccome la presenza. Lo state sognando anche voi un featuring fra loro due?
Questo mio flash viene interrotto dalle parole del dj, che finora ha lasciato parlare solo la sua musica “Hi guys, this is my only show in Italy and chose Naples”, chiamatelo fesso, direbbe il saggio. Momento cult è sulle note di “Ontario”, magistrale attestazione della sua proverbiale propensione nell’innovazione, questo brano è una costruzione soundscape o field recording, cioè registrazione di suoni naturali o fonografia. Ma è con “Kerala” – vero biglietto da visita di Bonobo che le tre cavee si infiammano, brano sviluppato intorno al sample di Brandy, regina dell’RnB.
Un viaggio – l’ho definito così – diverse suggestioni. Una commistione artistica che esplode come dall’inferno in cui si tende a confinare separatamente le arti fino a ricreare un vortice in cui tutte queste si assemblano e si mescolano, creando un mix viscerale senza confini, ne territoriali ne sensoriali.
A cura di Fabiana Criscuolo
