Quando nell’estate del 2013 si presentarono sul palco dello Stadio Olimpico in apertura ai Muse, gli Arcane Roots misero subito in mostra, nella loro breve scaletta, quanto di originale e nuovo erano in grado di portare al panorama musicale. Una band composta da 3 elementi in grado di costruire possenti muri sonori. Chitarre atmosferiche con pesanti stereo delay, distorsioni graffianti dal gusto brit rese più vicine al metal che al rock, un basso mancino suonato con poderose distorsioni e ritmiche dispari ipnotiche e cadenzate. Da Left fire (primo ep) a Blood and Chemistry gli Arcane Roots ne hanno fatta di strada, mettendo sempre in mostra il loro genio compositivo e portando sui palchi musica originale, uno stile ben definito e fresco. Muse, Mars Volta, Biffy Clyro, Messhuggah, mathcore di vario genere e anche un poco di post rock sono gli elementi che portano la band di Kingaton upon Thames (Londra) a guadagnare uno stile personale e fresco. Ogni cosa è però un lento divenire. Tutto cambia e si trasforma, energy is never lost, just redirected (citando gli stessi Arcane Roots). Già nell’ep Heaven and Earth (2015) sono udibili i primi cambiamenti. Ma è con il loro ultimo album, Melancholia Hymns (15 settembre 2017), che il trio Londinese ha compiuto il grande salto nel vuoto, il passo verso una maturità maggiore, verso una ricercatezza di nuove sonorità a tratti tremendamente coerenti quanto allo stesso tempo lontane dal passato. Melancholia Hymns, secondo album ufficiale della band, è un lavoro complesso, particolare, dal sound estremamente costruito e ricercato ma, soprattutto, tremendamente diverso dal passato.
Atmosfere post rock, new age, synth wave e durezza math rock in una fusione inaspettata.
Melancholia Hymns si apre con la solenne Before me. Un lungo intro sorretto da pesanti synth pad atmosferici dal suono sgranato ma caldi e avvolgenti. Cori intonano un canto solenne su un progredire di note, un ascensione dal gusto mistico, un crescendo che si risolve in un esplosione finale tra l’epico e il drammatico settata su sonorità apertissime, uno spiccato gusto synth wave e facilità di ascolto quasi pop. Il biglietto da visita è chiaro, qualcosa è cambiato.
Matter si collega direttamente al finale di Before me (ogni pezzo è collegato con il precedente in tutto l’album tramite brevi code strumentali). Una voce appoggiata da synth anticipa l’ingresso di una batteria che tra giochi di tom e ritmiche cadenzate regge ottimamente l’intreccio di chitarre, synth e voce falsettata (i Muse chiamano). Poi l’esplosione, un ritornello serrato si distende su un riffing rapido e muscoloso, serpeggiante e frenetico. Canti e controcanti si stendono con note lunghe e tirate, quasi urlate. Si ripete il pattern strofa/ritornello e dopo la seconda ripetizione giunge un riff pesantissimo (memore degli Arcane Roots di Left Fire) a chiudere le danze. Una coda strumentale elettronica ci convoglia poi a Indigo.
Pezzo dallo spiccato gusto pop/synth wave. I sintetizzatori atmosferici e un delicato arpeggio di basso reggono un cantato poppeggiante. Nel crescendo del pezzo sempre più elettronica va a incastrarsi in un serpeggiare di synth e sequencer. Poi il vuoto. Un singolo sintetizzatore tiene i bassi mentre una voce lontana e riverberata ripete in loop sempre la solita frase in modo ipnotico. Nel mentre il pezzo sale. La voce è ormai strumento di tappeto mentre chitarre, tastiere, basso e batteria si inseriscono a turno in un muro sonoro epico e possente, drammatico e solenne. Si giunge alla saturazione totale e poi ancora il vuoto. Lungo l’ending del pezzo, minimale e pacato.
Uno dei momenti di punta di un album in grado di regalare davvero molte emozioni. Off the floor è forse una delle canzoni più vecchio stile del lavoro. Il ticchettio dei bpm battuti da un vecchio modulatore, una chitarra acustica arpeggia in odd times e finger picking, primo giro di strofa e ritornello prima dell’ingresso della band completa. Basso, una batteria rapida, serrata ma contenuta, una chitarra dal suono acido e sfuggente. Torna il ritornello, la voce e le chitarre portano a un climax ascendente che si risolve poi in un caotico e stridulo riffing di chitarra, base per la terza strofa cantata prima di giungere a un tiratissimo ritornello finale, struggente, drammatico, emozionante. Così, in modo tirato e disperato si conclude la quarta traccia dell’album.
Poco da dire su Curtains. Semplice, minimale ed efficace. Un pezzo che vede un crescendo costante. Sintetizzatori, pad, voci effettate e percussioni elettroniche sono lo zoccolo duro di un album tra l’alternative, il synth wave e l’ambient. Non ne fa a meno Curtains. Un lento crescendo tra synth, voce e chitarra che porta poi a una travolgente esplosione finale. Un doppio pugno in faccia per l’ascoltatore che verrà prima sbalzato via da una poderosa commistione di chitarre e archi per poi ritrovarsi trascinato in un riffing violento in pieno stile Meshuggah dove un cantato al limite tra harsh e scream intona un ending rabbioso e spiazzante.
Una granitica chirarra distorta apre Solemn, subito seguita da una batteria dal ritmo lento, costante e allo stesso tempo mastodontico e incessante. Le distorsioni di basso e innesti di seconde chitarre conducono una strofa caratterizzata da un cantato tirato e sofferente, settato su altezze vertiginose. Il ritornello esplode poi su accordi di chitarra e un cantato al limite tra il falsetto e l’urlato. Il pattern ripetuto porta poi a un ending dove il ritornello finale cresce in corposità, il muro strumentale porta alla saturazione totale del suono mentre la voce, supportata da cori e controcanti, si confonde nella strumentale nell’incessante crescendo di un finale corposo e massiccio.
Con Arp e Firflies abbiamo due dei pezzi in cui l’elettronica si rende protagonista. Il primo, caratterizzato da un intreccio di rapidi arpeggi e melodie di synth è un climax che porta poi a una struggente esplosione finale dove trovano spazio cantati tirati, accordi aperti e melodici, melodie tracciate da delicati archi e un riffing pesantissimo che conduce il pezzo a un esasperato e tirato finale. In firflies troviamo il pezzo più pacato dell’album. Voce ed elettronica si incastrano andando a dar vita a una electro ballad pacata, epica, emotiva e malinconica. Un altro crescendo musicale, l’ennesimo dell’album, che si esaurisce su vertiginose scale vocali e muri di sintetizzatori e pad.
In Everything (all at once) troviamo un pezzo duro, serrato, rapido. Un pesante riff di basso e feedback di chitarra aprono a una strofa dove chitarre distorte si articolano con un cantato tirato e strutturato in piccole frasi staccate. Una serie di accordi discendenti strutturano un bridge che porta poi a un ritornello potente, serrato e dinamico. La conclusione è affidata a un riffing duro e dal gusto schiettamente mathcore dove cantati graffianti si alternano a clean tirati e vertiginosi.
Ad Half of the world è affidata la conclusione. Accordi aperti e areosi aprono un pezzo melodico e dal forte gusto pop. Il cantato, leggero e melodico, si appoggia su una ritmica struttura da una batteria lenta e minimale accompagnata da un corale battito di mani. Un bridge con feedback di chitarre in fade-in apre a un ritornello consistente negli stessi accordi dell’intro e un cantato posato e melodico. Il pezzo, dalla durata di 7 minuti, si dilunga poi sul crescendo teatrale ed epico in cui vengono riprese le armonie del bridge. All’ennesimo muro sonoro è affidata la conclusione dell’album che va così a spegnersi su toni melodici, aperti e frizzanti, a metà tra la malinconia che ha caratterizzato l’intero lavoro e un senso di speranza che porta un finale dal gusto dolce amaro.
Melancholia hymns è un album originale, risultato tremendamente equilibrato della fusione tra diversi generi (alternative, synth wave, ambient, post rock, math rock). Un album totalmente diverso da quanto gli Arcane Roots ci avevano abituato. Un cambio drastico in cui non si perde però la loro natura. Drammatico, tirato, potente, epicheggiante con i suoi muri sonori saturi e possenti, ricco di esplosioni travolgenti, profondamente emotivo ed anche intimo. Gli Arcane Roots con i loro melanconici inni hanno avuto il coraggio di cambiare, mutare forma in modo drastico, senza però scadere o commettere passi falsi. Il risultato ne è un album brillante, ennesima conferma di quanto il trio londinese (nonostante sia ancora immeritatamente sottovalutato) sia al momento tra le migliori proposte musicali a livello mondiale. Aprirono nel 2013 ai Muse. Nella loro musica vi è però la chiave per guadagnare un successo pari, se non superiore, a quello dei loro predecessori. Starà al mondo rendersi conto dello splendore emanato da un diamante ormai non più grezzo, a cui potrebbe essere tranquillamente affidata la salvezza della musica rock.
Voto: 8.5/10
Lorenzo Natali

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