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Achille Lauro, la conferenza stampa di presentazione di “1969” [Live report]

by Antonio Sartori
achille lauro

Siamo stati alla conferenza stampa per la presentazione di “1969”, ultimo lavoro di Achille Lauro. L’album, prodotto da Fabrizio Ferraguzzo e Boss Doms e pubblicato il 12 Aprile per Sony Music Italy, è stato anticipato dal singolo “C’est la vie” e dal brano “Rolls Royce”, con il quale l’artista romano ha partecipato al Festival di Sanremo, posizionandosi al nono posto.

Ciao Lauro, una domanda rapida per rompere il ghiaccio: questo album si propone di essere l’ennesimo ritorno al Rock ‘n Roll da parte tua, dopo il successo di “Rolls Royce”. Si può dire che sia diventato ormai uno state of mind?
Più che uno state of mind è proprio un lifestyle, uno stile di vita. Gli anni ’60 e ’70 sono stati gli anni più importanti nella storia del dopoguerra, sia culturalmente che musicalmente, e da parte mia sarebbe impossibile non lasciarmi ispirare. Inoltre io voglio che la mia musica possa essere generazionale, possa parlare a tutti e rimanere, e quell’epoca è un collante generazionale fenomenale, capace di restare ferma nel tempo nonostante il passaggio degli anni. E così voglio fare io, voglio restare.

Durante l’ascolto dell’album, le sensazioni principali che emergono sono la disperazione e la leggerezza: possibile che questa unione particolare, quasi distonica, sia diventata propriamente la tua cifra stilistica?
È così, la leggerezza e la disperazione sono le due macrosensazioni che muovono l’album, anche se in modo diverso, la prima con modalità più denotative, la seconda più connotative. Non sono però delle emozioni esclusive di qualcuno, non sono sensazioni che provo solamente io: rispecchiano ciò proviamo -e in fondo siamo- tutti, io cerco solamente di bloccare questi momenti nel tempo, di trasformarli in qualcosa di tangibile.

Trovo molto interessante la tendenza degli ultimi anni da parte di molti artisti che provengono dal mondo del rap di cercare un ampliamento del proprio orizzonte musicale, cercando di spaziare tra generi differenti.
La tua carriera sinora si inserisce perfettamente in questo filone; in tal senso, da dove prendi l’ispirazione per continuare a innovare?

L’ispirazione viene dall’esperienza, la mia musica è profondamente condizionata dalla mia vita. Musicalmente l’innovazione è la mia stella polare, cerco di muovermi continuamente a zig zag, diciamo che la mia zona comfort è non avere una zona comfort.
Ciò non vuol dire ovviamente che non mantenga la mia anima, io son sempre lo stesso, semplicemente ho preferito parlare di cose diverse rispetto agli altri dischi.
Io sono cresciuto con questo mercato usa e getta, è normale che le mie canzoni risentano do una profonda influenza da parte dei nuovi generi nati dal 2000 in poi (elettronica, rap, trap…), però questa volta abbiamo deciso di ispirarci ad un tipo di musica che non appartiene ad un solo periodo: la musica di quegli anni è musica che ha segnato non solo un epoca, ma persino la storia, è LA musica per antonomasia, è talmente iconica da perdere i connotati di vecchio e nuovo; noi ci siamo limitati a reinterpretarla attraverso le lenti di oggi, filtrandola con alcune sonorità più attuali.

Sempre a proposito di tendenze, vorrei aprire questa domanda con un complimento, non mio, ma di M¥SS KETA: durante la conferenza stampa per l’uscita di PAPRIKA, identificò la tua influenza come fondamentale per quel che riguarda il recente rinnovamento del rap e della trap in Italia, grazie alle tue numerose sperimentazioni, non ultima la samba trap. Riconosci il tuo ruolo in tutto ciò?
Innanzitutto un grande grazie a MYSS, è un artista che apprezzo molto, le faccio i complimenti per il disco e le auguro il meglio.
Per quel che mi riguarda, semplicemente mi colloco nella normalità; l’unica certezza che ho è la consapevolezza  di star creando qualcosa di innovativo, di diverso.
Nessun pittore dipingerebbe la stessa tela due volre, il mio primo obbiettivo è innovare e fare musica che piaccia primariamente a me.

Il periodo musicale di riferimento per questo album è più che chiaro, ma da dove deriva la scelta del titolo? Perché proprio il 1969?
Gli anni ’60 e ’70 sono stati anni di grande cambiamento, dai quali ho attinto a livello musicale e culturale, simboleggiano la vogliq sk cambiamento, di nuovo e di libertà a 360 gradi che è propriamente mia. Anche la scelta della copertina non è casuale, ognuna delle quattro icone ha uno specifico significato: James Dean rappresenta la sregolatezza: Marylin non ha bisogno di descrizioni, è l’icona per definizione; Jimi Hendrix è il portatore di tutto l’immagiario hippy e libertino; Elvis invece è una delle mie più grandi influenze a livello musicale.
Il 1969 è stato teatro di avvenimenti incredibili, basti pensare al primo trapianto di cuore artificiale, a Woodstock, o all’allunaggio, giusto per citare i primi tre che mi vengono in mente. Inoltre io non credo al caso: due anni fa ho scritto il brano “1969”, un anno e mezzo dopo partecipato alla 69esima edizione del Festival, considerando poi quanto io abbia attinto artisticamente dalla musica di quegli anni, ho deciso di onorare questa data.

Hai citato il Festival di Sanremo. Purtroppo, oltre al tuo grande successo, di Sanremo ricordiamo anche l’ondata di critiche che ha investito il testo di “Rolls Royce”. Ti andrebbe di raccontarci cosa è successo e come l’hai vissuta?
Andiamo per step: dopo l’ascolto pre-Sanremo da parte della stampa stampa ricevemmo ottime recensioni: ero molto motivato, contento che il risultato del lavoro di un anno e mezzo non piacesse soltanto a me, un rischio sempre possibile considerando la mia tendenza a cambiare spesso il mio percorso musicale, quasi annualmente.
Allo scoppio delle polemiche, inizialmente pensavo fossero qualcosa di circoscritto a Sanremo, create ad hoc per creare uno scandalo; se qualcuno avesse chiesto all’autore, -ossia direttamente a me- il vero significato di quelle parole, o anche semplicemente un confronto, non avrei avuto nessun problema a rispondere.
Ciò che mi ha sorpreso in negativo è stato invece vedere il prolungarsi della faccenda: quando ho voluto essere esplicito nella mia carriera lo sono stato, questa polemica è stata squallida almeno per due motivi: innanzitutto ha rovinato la mia immagine, ma soprattutto ha distolto l’attenzione dalla musica per spostarla da una parte orrenda, il ché a sua volta ha generato un dibattito su di un problema grave e reale come la droga è, discusso però con una superficialità disarmante. È un tema che andrebbe trattato nelle scuole, spesso si confondono le situazioni di vero pericolo: il rischio più grosso lo corrono tutti quei ragazzi che non conoscono le situazioni drammatiche che la droga può generare, quei ragazzi che si avvicinano alla droga solo come divertimento.
Io conosco il pericolo, conosco le situazioni estremamente tristi e problematiche che può produrre.
Inoltre è importante ricordare che questo è un lavoro, io, e con me tutti i ragazzi che fanno musica, lavoriamo: misimterpretate alcune parole decontestualizzandole è totalmente irrispettoso nel confronto del nostro lavoro.
Basti prendere le frasi incriminate: “Voglio una fine così” ad esempio, per me inizio e fine molto semplicemente soni stadi imprescindibili e fondamentali della vita; oppure ancora: “Dio ti prego salvaci da questi giorni”, non è una preghiera rivolta solamente a chi sta male, è una preghiera per tutti.
Avermi messo in bocca delle parole che non ho mai pronunciato non è stato facile da metabolizzare, soprattutto per una persona che quelle situazioni le ha vissute, ma grazie al vostro appoggio, all’appoggio di molti giornalisti, sono riuscito a concentrarmi sulla musica, a lavorare bene e andare avanti, concludendo quest’album poco dopo la fine del Festival.

Chiarita una volta per tutte la questione, torniamo a “1969”, si può dire che questo disco in qualche modo volti pagina, senza però strappare quelle già lette; non hai paura però che alcune delle cose raccontate in “Amleto sono io” (l’autobiografia uscita a Febbraio 2019, ndr) possano permanere e ripresentarsi in futuro, così influenzandolo?
I miei dischi son sempre stati dei piccoli racconti, ognuno narrava alcune storie del mio mondo; il filo rosso che li unisce è la volontà di affrontare queste storie in modo diverso dalla media, evitando in ogni modo l’ostentazione, presentandole quasi come delle specie di preghiere.
La storia presente nel libro è la stessa che racconto negli album, semplicemente priva dei vincoli legati alla musica. Adesso posso ritenermi fortunato per aver trasformato la mia passione in lavoro, ma ciò non vuol dire che tutto ciò sia esclusivamente frutto del caso. Io non sono mai stato un sognatore del mio successo, sono un operaio dello stesso, sono arrivato a costruirlo pezzo per pezzo, ora per ora, senza dormire durante gli ultimi 7 anni. Nella vita ci sono degli alti e dei bassi, per me questo è un momento di responsabilità, non intesa come luogo comune, non sto parlando di responsabilità nei confronti del pubblico: quella ovviamente esiste, ma l’artista rimane tale, e la sia più grande responsabilità è quella nei confronti delle persone che lavorano a questo progetto, delle persone che vi sono “attaccate”; siamo tutti aggrappati ad una corda, se io sbaglio, assieme a me cadono molte persone, fra cui la mia stessa famiglia. La vita, l’accumularsi tutte le esperienze della vita, è ciò che costruisce il carattere; questi brani sono stati scritti durante dei momenti difficili, e hanno mille sfaccettature.
Come dicevo prima, io sono fortunato perché riesco a trasferire le sensazioni derivate da questi momenti in qualcosa di tangibile e a farne tesoro, ma non è un processo immediato: bisogna lottare e saper farsi strada in mezzo a tutti gli illusionisti della musica.

Chi sono gli “illusionisti della musica”?
È il mercato musicale in sé, la musica è una strada tortuosa, non è un campo sicuro: io ho letteralmente scommesso tutto quello che avevo, tutti i miei soldi, tutto il tempo che avevo a disposizione, per tuffarmi a capofitto in un mondo e in un ambiente molto ostici. Questo è  un universo che invece di trainarti prova a risucchiarti, a prendere tutto ciò che può.

Tu prima hai parlato di responsabilità: perché quella nei confronto del pubblico rivestirebbe un ruolo “secondario”?
Non penso si debba parlare di primario e secondario, semplicemente soddisfare il pubblico non è l’elemento fondamentale dell’artista.
Gli artisti hanno una responsabilità oggettiva, soprattutto dovuta al rapporto ultra-diretto tra artista e pubblico mutuato dai social, però non può diventare un capro espiatorio, se no re-introduciamo la censura e aboliamo il 90% della musica mondiale.
Detto ciò, l’artista non è un educatore, l’educazione è un’altra cosa, che andrebbe fatta in una sede differente. Sta al pubblico riuscire a capire e discernere, non credo che tutti gli ascoltatori dei Beatles si facessero di LSD, giusto per fare un esempio. Ogni tanto basterebbe semplicemente utilizzare un po’ di intelligenza.

Nel tuo album e nelle interviste parli spesso di “voler rimanere” e della volontà di porsi come megafono generazionale: da dove nasce questa esigenza? È anche frutto di una qualche volontà di riscatto nei confronti di un passato in cui a volte può esserti capitato di sentirti un fantasma?
Sicuramente sì, ma è anche una questione di etichette  attribuite erroneamente: noi abbiamo sempre innovato, non solo siamo degli outsider, ma anche dei “ballerini”, l’ultimo disco ad esempio, nonostante fosse stato definito “Trap” era sostanzialmente elettronica influenzata da un po’ di trap e di samba. L’etichetta di trapper condanna ad essere incasellati in una specifica fascia d’età, spesso under 25, io invece ho 28 anni, mi sento vicino anche alle altre generazioni e quindi voglio parlare a tutti, proprio come ha fatto Vasco.
L’anima rimarrà sempre la stessa, mi sento nel posto giusto al momento giusto, album ci sono zone comfort per i fan, ho sempre avuto una nota malinconica e disperata, che veniva trasmessa con io c’è ma continua ad esistere, ma con altre cose nuove.

Infine, uno sguardo al futuro: ad ottobre partirà il tuo nuovo tour, cosa lo differenzierà dal precedente?
Sarà uno show importante e diverso, ovviamente supportato da una band, e non sarà un semplice riarrangiare vecchi brani per proporli sotto una nuova luce. Sicuramente ci sarà anche quello, ma l’obbiettivo reale è la diffusione di nuova ondata musicale.
Molti brani dell’album sono frutto dell’unione fra sonorità figlie di strumenti analogici e digitali, e questo è molto significativo: la musica suonata con gli strumenti analogici nasce per esibirsi. Dal canto mio, penso di rendere ancora di più ai live.
È molto differente dallo scrivere o dal registrare, che sono processi decisamente vicini ad una sorta di autoanalisi, la musica live è fatta per essere condivisa.

Ultimissima curiosità: confermi le voci che ti danno come possibile futuro giudice di X-Factor?
Se devo essere sincero, son contento che ne parlino, ma io non ne so nulla (ride). In ogni caso speriamo! Ho avuto la possibilità di passare una giornata con Mara (Maionchi, ndr) ed è stata un’esperienza fantastica, una persona stupenda. Per me sarebbe un grandissimo onore poter partecipare come giudice, in ogni caso staremo a vedere.

A cura di Antonio Sartori

 

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